Radio K55
Data di pubblicazione: 04/04/2023 alle 08:52
Nella scorsa settimana sono accaduti due eventi simili nel mondo degli sport degli umani terrestri anche se appartenenti ad ambiti molto differenti, il tennis e il nuoto.
Due atleti all’apice della carriera, due numeri uno, decidono di ritirarsi oppure di fermare gli allenamenti.
La prima è la tennista australiana Ashleigh Barty, vincitrice di Wimbledon nel 2021 e degli Australia Open nel 2022, la scorsa settimana comunica di aver preso la decisione ufficiale di lasciare il tennis a 25 anni. Ecco alcune sue parole : “Sono esausta. La mia felicità non dipende dal risultato. Ho detto alla mia squadra che non ho più la forza per tirare fuori il meglio da me stessa. Non ho più niente da dare e per me è un successo”.
Il secondo è il nuotatore inglese Adam Peaty, ventottenne, per otto anni dominatore assoluto delle gare di rana, ori olimpici e titoli mondiali in quantità. Rinunciando a partecipare ai campionati nazionali, rinuncia così ai mondiali Di Budapest della prossima estate, in attesa di capire cosa vorrà fare dopo. Le sue parole, affidate ad un messaggio Instagram, sono le seguenti: “Chiunque vuole sedersi al tuo posto fino a quando sono loro a doverlo fare… davvero poche persone capiscono cosa fanno vittorie e successo alla salute mentale di una persona. Non capiscono la pressione che queste persone mettono su sé stesse per vincere ancora e ancora”.
Visto che parliamo di salute mentale occorre dire che il funzionamento della mente di chi sta al vertice dello sport per tanti anni è fondato sulla capacità di ripetere uno stesso comportamento/allenamento per infinite volte, in modo sempre più raffinato e specializzato. Ovvero, deve assomigliare al funzionamento di una mente analogo a quello di una sindrome ossessiva compulsiva.
Nel nuoto sono noti i casi di Michael Phelps, Ian Thorpe e Ryan Lochte. Nel tennis sono noti i casi di Naomi Osaka, ma soprattutto di Agassi che intorno alla stessa età di Barty, dopo aver vinto tutto, per gli stessi motivi, ebbe un crollo passando dal numero 1 al numero 145 del ranking mondiale e cominciando a far uso di anfetamine. Le sue parole: “Non hai voglia di alzarti dal letto la mattina, realizzi che il senso di felicità che provavi era falso… Ho odiato il tennis fin da bambino perché non è mai stata una mia scelta… Non ho mai scelto la mia vita”
Ma anche quando si tratta di atleti che sono rimasti sempre ad alto livello come Venus Williams, si registrano parole come queste. “Tutti noi affrontiamo le sfide della salute mentale derivanti dalle inevitabili battute d’arresto e incertezze della vita. Viviamo anche in una cultura che glorifica l’essere maniaci del lavoro, dove i rischi di burnout sono spesso ignorati e dove, ammettiamolo, che tu sia dentro o fuori dal campo, vincere è tutto.”.
Dunque, lo sport ammala? No sicuramente, è certo che, al contrario, l’attività fisica svolga una funzione antidepressiva e antidegenerativa molto importante.
Potremmo dire allora che la vittoria ammala? Neanche questo sembra corretto. Gli esperimenti sociali che hanno abolito radicalmente la meritocrazia sono tutti falliti, come è noto. Premiare il merito è fondamento dell’attività sportiva agonistica. Anche nelle prime Olimpiadi della storia, nell’antica Grecia, vincere era importantissimo. Per il vincitore, la sua famiglia, e il popolo di provenienza, una vittoria era motivo di grandissimo orgoglio, e veniva narrata su commissione da poeti ed artisti.
Ma Venus parla di burnout, un termine che nasce negli anni trenta per indicare condizioni di stress dovute ad uno squilibrio nelle relazioni lavorative o sportive tra il soggetto ed il suo ambiente di appartenenza.
Fino agli anni ’90 non si erano presentati casi clamorosi di burnout nello sport. Nel Tennis Bjorn Borg lasciò a 26 anni nell’83, ma dopo aver iniziato a vincere giovanissimo e sostanzialmente perché non era più il numero uno, battuto da McEnroe. Il primo vero burnout si riscontra nel nuoto. Cristina Sossi, nuotatrice ventunenne, a due settimane dalle Olimpiadi di Barcellona del 90, crollò decidendo di lasciare il nuoto che trovava insopportabile sia dal punto di vista fisico che psichico.
Prima di allora, le vittorie erano sempre raccontate dai protagonisti con grandi sentimenti di gratitudine verso lo sport agonistico. Una narrazione tipica era quella per cui il successo ottenuto attraverso l’agonismo aveva permesso al protagonista di riscattarsi da un passato di miseria e da un probabile futuro di delinquenza.
Ad oggi, invece, il problema del burnout sembra orizzontale a tutti gli sport di vertice: la pallacanestro (Kevin Love), il Football americano (Brandon Marshall), il Calcio (Bojan Krkic, Sebastian Deisler, Christoph Metzelder). Nel calcio, proprio questa settimana, Maurizio Sarri, allenatore della Lazio ha usato queste semplici ma efficaci parole: “Il calcio da sport è diventato business, se poi diventa solo business non escludo che tra 10 anni a nessuno interessi più”.
Ma se il problema è della crescente mobilitazione di capitali in relazione agli spettacoli sportivi, i singoli protagonisti sportivi hanno dei gradi di libertà per sottrarsi al temuto burnout? Ma soprattutto, hanno l’età giusta per fare delle scelte al proposito?
Tutti conoscono l’americana Simone Biles e la sua storia di ginnasta di grande successo, ma che a 24 anni rinuncia a numerose finali olimpiche a Tokyo, nel 2021. E’ una storia complicata dallo scandalo degli abusi sessuali perpetrati da un componente della federazione di Ginnastica americana sulle atlete. Ma quello che colpisce è che USA Gymnastic, nei suoi responsabili, ha cercato di nascondere lo scandalo per parecchio tempo, per fortuna non riuscendoci, per paura di venire danneggiata nei suoi obiettivi sportivi.
In Italia, è in corso un processo a due responsabili della Federazione Ginnastica Ritmica che seguono le atlete della Nazionale, le cosiddette “farfalle”, per le accuse da parte di alcune atlete, di avere fatto pressioni psicologiche al limite del maltrattamento su atlete in età infantile, provocando in alcune ginnaste l’insorgere di disturbi alimentari e psicologici. Infatti, il problema del controllo del peso per le discipline sportive di tipo estetico (Danza, Ginnastica, Pattinaggio) inizia già verso i 5-7 anni. Un controllo strettamente imparentato con la possibilità di sviluppare un Disturbo Alimentare ad un’età in cui non si hanno gli strumenti per opporsi alle richieste degli allenatori circa il vissuto inadeguato per il proprio peso forma. Le atlete che, parlando, hanno contribuito all’avvio di questo processo, sono infatti tutte più che ventenni, ormai fuori dal giro delle Nazionali, che ricostruiscono quanto succedeva loro intorno ai 10 anni. Una di queste ragazze ha riferito questa frase della sua allenatrice: “La miglior ginnasta è orfana, perché non ha genitori che si impicciano, e ignorante, perché non va a scuola”.
Quanto accaduto nella ginnastica artistica ci svela che il vero fenomeno che caratterizza l’evolversi della attività agonistica nell’età contemporanea è l’occupazione dell’età infantile da parte della cultura dello sport agonistico vissuta dagli adulti. Un’età, quella infantile, che 60 anni fa era impegnata soprattutto nei giochi all’aperto, perlopiù in strada, ora vede bambini di 5 o 6 o 7 anni (nel tennis, nella ginnastica, nel calcio, nel nuoto, ma non solo) avere già un allenatore dedicato che li immerge in una realtà di aspettative adulte circa il successo, la vittoria e, perché no, i futuri guadagni. Il calcio, lo sport più popolare, si imparava nei garage e nelle piazze, ora c’è la scuola calcio, il campo estivo di calcio ecc… All’interno di queste strutture, il bambino viene sicuramente allenato con cura e dedizione, ma anche, viene investito dalla concezione adulta dello sport agonistico e perde il contatto con la dimensione ludica ed esplorativa, che invece dovrebbero essere i motori principali dell’azione infantile. L’insulto più cattivo e più comune tra ragazzini oggi è “sei un perdente!”.
Ne consegue che la mente che funziona con le caratteristiche di una sindrome ossessiva compulsiva verso il successo sportivo, non è più solo quella dell’atleta, ma piuttosto, di tutto il sistema di relazioni che circonda l’atleta stesso, una mente estesa, composta dai contributi di tutti i protagonisti che incidono sulle prestazioni dell’atleta, fin dalla sua infanzia.
Il problema dell’invasione dell’infanzia da parte delle culture e degli interessi adulti è molto più ampio di quanto accade nello sport. E’ una trasformazione epocale che proietta l’infanzia in logiche di relazioni adultizzate e che si riverbera in tutte le strutture educative che la società contemporanea offre alle nuove generazioni.
Nei precedenti articoli abbiamo già trattato del sistema competitivo nei cicli di formazione dell’età evolutiva e della tecnologia adulta precocemente messa in mano ai bambini.
Occorrerà ancora tornare sull’argomento per rifletterlo meglio.
Buon Universo a tutti.
Written by: mind_master
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