Radio K55
Data di pubblicazione: 19/09/2023 alle 22:37
Incidi sul mio petto le iniziali
di questo amore rotto
e poi mettici due ali
…
Tutto di te, Tatuatami tutto di te
Così cantava Claudia Megrè. Se da qualche anno il tatuaggio è entrato a far parte anche del mondo canoro italiano è giunto il momento di parlarne.
Sembra che Ötzi, la mummia trovata tra le piste da sci dell’Alto Adige qualche annetto fa, o meglio nel ghiacciaio della val Senales, recasse numerosi tatuaggi, ben 61, sulla schiena e sui talloni. Erano linee e croci ottenute con la scarificazione della pelle e poi ricoperti di carbone vegetale per dare colore. Ötzi era un pastore vissuto più di 5 mila anni fa. La ragione di questi tatuaggi sembra riconducibile al dare sollievo ai dolori dovuti all’artrosi più che al desiderio di modificare l’immagine di sé.
E’ però ormai assodato che, a partire proprio da quell’epoca, il tatuaggio, nonostante fosse esecrato nell’Antico Testamento, si diffuse ampiamente a partire dall’Egitto fino ai Balcani e poi a tutta l’Europa. Dopo, ci fu un lungo oblio durante il medioevo ed infine una riscoperta nel XVIII secolo quando, con il termine “tatau” di derivazione tahitiana, il tatuaggio viene reintrodotto in Europa.
Il suo impiego prevalente è stato quello di contrassegnare l’appartenenza ad una élite o, più in generale, ai componenti di una stessa comunità. Sia con un valore positivo di appartenenza e riconoscimento (ad esempio le comunità cristiane) sia con un valore negativo di esclusione e ghettizzazione (la marca degli schiavi sin dall’epoca romana, la mafia giapponese, la shoah, ecc…)
Ma arriviamo ai giorni nostri. Negli ultimi 10 anni c’è stato un boom in Italia dei tatuaggi al punto da diventare il Paese più tatuato del mondo, con il 48% della popolazione “marchiato”. È seguita nell’ordine dalla Svezia (47%) e dagli Stati Uniti (46%).
Cosa c’è dietro questo business di oltre 6000 imprese e oltre 300 milioni di euro l’anno? quali sono le motivazioni individuali e le spinte collettive che sostengono questo slancio creativo nel modificare la naturale immagine corporea ?
Tra i bisogni evolutivi di un essere umano c’è quello di operare una distinzione dagli altri come essere autonomo e differenziato. Ma contemporaneamente, c’è quello di garantirsi l’appartenenza al consesso umano che maggiormente interessa, in quanto membri di una specie vincolata alla convivenza con i propri simili.
Nei tatuaggi, trattando dell’immagine personale, possiamo dire che il dilemma è: mi svelo nella mia natura diversa da quella altrui o mi nascondo uniformandomi alla moda ?
Già gli antichi (Ars est celare Artes) avevano capito che le due azioni si implicano reciprocamente. Nel rivelarsi c’è un nascondersi almeno in parte, nel celarsi c’è uno svelamento, almeno in parte. In latino la parola persona significa infatti “maschera teatrale”. E Oscar Wilde diceva “gli uomini mentono sempre, ma dategli una maschera e diranno la verità”.
Sicuramente, anche il tatuaggio si presta sia a nascondere che a svelare.
I tatuaggi che tendono a coprire vaste estensioni di pelle su arti e tronco hanno grande visibilità ma in qualche modo confondono, distraggono, sviano l’attenzione dalla persona. Ovvero celano. Ma nel celare anche rivelano, se la “persona” è a sua volta già una maschera.
Quelli che coprono una superficie limitata di pelle svolgono una funzione più rivelatrice? Sembrano veicolo per esprimere valori, credenze, speranze, motivazioni. Ma ci sono casi in cui è vero anche il contrario. Insomma, la questione è complessa.
Forse è meglio riflettere sul perché viene scelta la pelle come luogo di comunicazione visiva e come punto di contatto tra sfera individuale e sfera sociale.
Per affidare a un’immagine il compito di svelare o velare qualcosa di sé basterebbe anche una maglietta, in un’epoca in cui è facilissimo stampare tutto su tutto.
Se però la pelle viene preferita all’abito, possiamo riflettere su almeno due ragioni.
La prima ragione è che tra abito e pelle c’è una sostanziale differenza. Nel senso che, se anche la pelle è più intima di una maglietta, ovviamente, è comunque un elemento di quel grande straniero che vive addosso a ciascun essere umano: il suo corpo. Il corpo è un qualcosa che si è, ma anche, che si ha. Tra le cose che si hanno però il corpo è quella che, meno di tutte, si sceglie. Ci sono molte altre cose che si hanno e che si scelgono: una casa, dei vestiti, un auto, un compagno, un lavoro. Ora immaginiamo un ente superiore che assegni a ciascuno tutte queste cose sulla base di una sua scelta insindacabile. Probabilmente nascerebbe la voglia di modificarle prima possibile per farle essere un poco più vicine al sentimento di essere se stessi. Così è per il corpo, che ci viene assegnato ma che rimane un totale estraneo. Anche altre cose ci sono estranee, per esempio il nome di battesimo, con cui impariamo a convivere, ma è scelto da altri. Ma il corpo è uno straniero vero. Alle volte resta buono e zitto ma in tanti momenti della vita fa un po’ come vuole lui. Non dorme quando e quanto dovrebbe, è spesso luogo di sensazioni e sentimenti inopportuni. Più passa il tempo e più richiede manutenzioni dispendiose e dolorose. Insomma, un vero estraneo. Il più intimo degli estranei.
Quindi, almeno modificare il corpo con le diete, gli allenamenti, gli interventi di chirurgia plastica, i piercing e i tatuaggi, corrisponde al desiderio di sentirlo un po’ meno straniero, un po’ più vicino possibile a ciò che si vorrebbe essere nel momento di vita attraversato. Chi si tatua vuol decidere almeno una parte delle sue fattezze senza dipendere da quel sé corporeo e non solo corporeo, che gli è stato assegnato dai genitori, dai geni, dalla natura, dal destino o da Dio.
La seconda ragione è che la pelle una volta tatuata non la puoi lavare in lavatrice. Ovvero il tatuaggio vince la partita con il divenire perché l’immagine è per sempre, almeno nelle intenzioni.
Questa ragione si connette a molti altri comportamenti degli umani che rivelano il desiderio di vincere questa partita. Qualche noto esempio: “prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”
Dalla formula testuale a quella iconica, ecco una foto di un tratto di Ponte Milvio, che esprime più o meno lo stesso concetto:
Un’immagine che, oltre a suggerire come il fondo del fiume Tevere sia tappezzato di chiavi di lucchetti, conferma l’enorme desiderio degli umani di salvare qualcosa di bello dalla dittatura del cambiamento continuo in cui viventi e non viventi sono immersi.
Un periodo della vita in cui tutto cambia molto velocemente è l’età giovanile, dove questo tema è particolarmente sentito.
Il giovane, nell’uscire dall’infanzia, sperimenta una serie di cambiamenti che, anche se lo portano ad acquisire tante nuove possibilità, comportano il dover rinunciare ad una parte importante del proprio vissuto di sé. Per contrasto quindi, il desiderio di ancorare il proprio sentimento soggettivo, il proprio vissuto identitario, a qualcosa percepito come stabile e immutabile è molto forte. In conclusione, potremmo pensare che la seconda ragione si esprime in un sentimento di questo tipo: “Se il valore che oggi mi rappresenta meglio attraverso questa determinata immagine lo incido sulla pelle, in questo modo lo salvo dalla corruzione di tutto ciò che cambia e quindi mi rassicuro circa me stesso e la solidità della mia identità”.
Il tatuaggio come trionfo sullo scorrere del tempo.
Le motivazioni individuali appena trattate però non danno ragione di questa diffusione così veloce e ampia dell’uso del tatuaggio nelle popolazioni giovanili e della tendenza alla crescita costante dei suoi numeri.
Nell’articolo passato sulla Street Art abbiamo già trattato il tema, introdotto dal filosofo Lipovetsky, per cui la nostra epoca è quella del compimento di una estetizzazione del mondo. Si parla perciò di “capitalismo artistico”, che si rivolge ad un “uomo estetico”. Ovvero un iperconsumatore che guarda il mondo da una prospettiva estetica. Lipovetsky sostiene che oggi non esiste oggetto comune che non sia lavorato da un’équipe di designer. Per esempio, gli orologi, le borse, gli occhiali vengono presentati come articoli di moda.
Occorre considerare quindi la possibilità che, all’interno di questa tendenza estetizzante, negli ultimi venti anni anche la superficie del corpo sia stata scoperta come un possibile oggetto di design. Lo conferma la tecnologia luminosa a led che oggi ha invaso tutti gli oggetti di design. Ebbene, da oggi anche i tatuaggi. Un’equipe di ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e dell’University College di Londra ha annunciato lo sviluppo di una sorta di tatuaggio luminoso che brilla di luce propria sulla pelle e che dovrebbe essere anche programmabile.
E’ forse questa la ragione del boom dei tatuaggi in un paese come l’Italia dove la cultura del design è molto sviluppata?
In attesa di capirci di più, siamo pronti per la notizia di questa settimana finalmente.
Arrivata ai suoi 40, la nota conduttrice di Happy Family, Ema Stokolma, che vedete nella copertina dell’articolo tratta da una foto del Corriere della Sera del 15 settembre, ha lanciato l’allarme. Se nei primi 40 hai accumulato una numerosa serie di tatuaggi che nei secondi 40 diventano improponibili per come sei cambiata, accade che Ema arrivi a dire «Ho iniziato da ragazza, quando erano di moda, mi facevano sentire speciale. Ma era sbagliatissimo. Ora li odio e ho iniziato a cancellarli. Ecco perché dico a tutti: ricordate che crescendo i gusti cambiano»
Quindi, c’è una età della vita in cui il subire la propria immagine naturale terrorizza, ma anche un’età in cui terrorizza l’impossibilità di tornare all’immagine di quel se stessi da cui si è partiti. Infatti così prosegue: «Vorrei toglierli tutti, ma è un’utopia. Non voglio farne altri per coprire questi»
Ema spiega tutto ciò esclusivamente sul piano estetico, come un fatto di gusti. Ma forse c’è qualcosa di più da riflettere.
Per spiegare quello che succede ad Ema, proviamo a pensare che nell’età giovanile l’importanza dell’immagine presentata nell’istante vissuto influenza in modo strapotente il riconoscimento del proprio sentimento di essere o di esistere con qualcosa di personale da dire. All’opposto, la componente storicizzata dei vissuti identitari è quasi nulla perché si è appena agli inizi del viaggio nella vita adulta.
Non così solo qualche decennio dopo. Il sentimento di essere se stessi si appoggia, strada facendo, a tutte le cose che sono state fatte pensate e credute, come pure alle persone amate. A tutto ciò che si ha appreso e a molto altro ancora. Si è di molto cambiati e insieme è cambiato il corpo.
Un corpo che conserva la traccia naturale di tutti i cambiamenti, di tutti i successi e fallimenti, meglio di un qualsiasi album fotografico. La pelle si popola di segni, righe punti protuberanze e avvallamenti, colorati e non. Le forme cambiano, cambia l’espressione del viso.
Il sentimento di essere se stessi si sposta impercettibilmente ma inesorabilmente dalla statica alla dinamica. Dalla propria immagine, che inizialmente aveva illuso di rimanere sempre uguale, alla percezione storica del proprio sé come sommatoria di ogni cosa fatta e vissuta e generata.
Anche perché, nel frattempo, interviene l’evidenza come controllare la propria immagine fosse un’illusione. Per quanti tatuaggi si facciano, il tatuaggio che la vita, nel suo dispiegarsi, traccia sul complesso del corpo, si impone su tutto. La vita racconta ciò che si è diventati. Ma per alcuni è una catastrofe, per quelli che si sentono di essere rappresentati solo dall’immagine giovanile. Allora ecco la chirurgia plastica, che sarebbe il tatuaggio dei non più giovani.
Per altri non solo non è una catastrofe, ma anzi. C’è qualcosa di incommensurabile nel continuo arricchirsi del vissuto di sé, e nell’impresa del provare a tenere il tutto sempre insieme, come ci ricorda Proust con l’espressione “l’immenso edificio del ricordo” che racchiude il senso del percorso della Recherche.
Tenere insieme tutti pezzi della nostra esistenza ed esperienza in un corpo e in una memoria, provando a dare quel poco di coerenza e armonia che è possibile dare. Questo è design allo stato puro, una vera opera d’arte. Che portiamo incisa nel nostro corpo, meglio di qualsiasi tatuaggio. Un’opera che può non riuscire, oppure riuscire male, come narrato splendidamente nel Dorian Gray del solito Oscar Wilde. Ma anche, può riuscire bene.
Di fianco ecco un volto tatuato da una vita piena, intensamente vissuta. È quello di Samuel Beckett. C’è tutta la sua storia in quelle rughe. Anzi, quelle non sono rughe. A saperle leggere sono racconti, tragedie, commedie, poesie. Umane, umanissime. Opere d’arte insomma.
Un’ultima cosa. Io sono solo un povero extraterrestre, condannato a vivere per eoni ed eoni, sempre uguale nell’aspetto. Ma se potessi essere un umano vorrei avere la sua immagine, quella di Samuel, essere proprio quel tipo lì di opera d’arte.
Buon Universo a tutti.
Written by: mind_master
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2
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3
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