Radio K55
Data di pubblicazione: 28/12/2024 alle 09:11
Cari Ascoltatori di tutte le galassie, il Pianeta Terra sta compiendo un ciclo della rivoluzione attorno alla sua stella. Ovvero un anno, come lo chiamano gli umani. Per questo compimento vi lascio con le parole di un amico psicoterapeuta che vuole restare anonimo. Le sue parole, forse, spiegano meglio alcuni aspetti del funzionamento degli Umani rispetto a certe notizie di Cronaca tanto strampalate che abbiamo più volte commentato durante l’anno. Il pittore René Magritte, infatti, riteneva gli psicoterapeuti esemplari casi umani, da osservare con attenzione per capire come funzionano i terrestri. In copertina potete osservare il suo quadro del 1937 intitolato “il Terapista”. C’è già tutto.
Dacci oggi il nostro limite quotidiano
“Non si sa perché proprio in quel momento, né si capisce chiaramente cosa ha fatto da premessa all’evento, ma a un certo punto lo psicoterapeuta si accorge che c’è un importante mutamento in atto. Per tante sedute le narrazioni del paziente sono state caratterizzate da un sentimento di impotenza, immerse in un’aria viziata, senza ricambio. Come se il tempo fosse sospeso o si muovesse con la stessa ineffabile lentezza di certe interminabili ore passate da bambini quando non si aveva un compagno con cui giocare.
Ma poi arriva una seduta in cui si avverte qualcosa di diverso nel clima dell’incontro con il paziente, fin dal suo primo apparire nella stanza di terapia.
È un mutamento che viene annunciato da piccoli segnali formali, che non si colgono immediatamente nel dettaglio, ma come una vaga sensazione di fondo. La scelta di un colore più vivace negli abiti, di un particolare accessorio, di un incedere più slanciato, di una “luce” diversa nel modo in cui fa quello che ha sempre fatto: entra, saluta, si siede, inizia a parlare. E finalmente sembra che qualcuno abbia aperto la finestra.
Quando, nello scorrere della seduta, questa sensazione di aria fresca diviene sempre più marcata, il terapeuta allora, può cedere alla tentazione di frugare nel ricordo delle sedute precedenti per cercare ciò che sempre rassicura di fronte a un cambiamento di orizzonte: Il legame causale con un antefatto. Se poi questo, egli ritiene di poterlo identificare in qualcosa di particolarmente intelligente, detto o fatto da lui stesso, la rassicurazione è completa, perché include anche l’auto esame del proprio operato.
Ma in genere, se tutto va per il meglio, questa rassicurazione non resiste per più di un breve istante. Perché immediatamente dopo, emerge l’inquietante sensazione che il mutamento non sia posto affatto sotto il suo controllo, né sotto il controllo del paziente stesso. Il quale intanto, ignaro dei pensieri che emergono in una parte della mente del terapeuta, sta snocciolando il solito refrain sui suoi temi di interesse, neanche molto differente da quello conosciuto.
Ma la differenza non è nei contenuti, è nella forma. E’ accaduto qualcosa di nuovo, di vitale.
Accade nella donna angosciata per il marito distante, che fino ad allora si è misurata incapace di scollare le sue emozioni da un uomo che le ha dirette altrove da tempo.
Accade nel ragazzo post adolescente in una tardiva crisi di svincolo, che fino ad allora si è trovato preso in mezzo all’alternativa impossibile tra misurare la sua impotenza verso il mondo oppure ricadere nella sua onnipotenza verso i genitori.
Accade nei genitori di mezza età, incastrati in una partitura il cui unico tema è il comportamento di un figlio, come se dovessero arginare in questa tutti i mali dell’umanità intera.
Il primo segnale di questo accadere si coglie nel nuovo clima caratterizzato dalla percezione come di uno spazio di possibilità differente, più ampio di quello percepito precedentemente. Il perimetro che traccia lo spazio di esperienza del paziente, prima inciso nella pietra, ora viene vissuto come qualcosa di più elastico, di più flessibile, magari grazie a un’occasione fortuita, un fatto nuovo che introduce una frattura nella percezione di un mondo granitico.
Ma il cambiamento del clima è qualcosa che, in genere, anticipa le occasioni apparentemente fortuite. Spesso viene accompagnato da un sogno. Un tipo di sogno che mette in scena un evento del passato, vissuto però con un elemento di novità radicale. La donna di prima sogna di essere di nuovo in preparativi per il suo matrimonio, e tutto si presenta come allora. Ma c’è un particolare nuovo, non ci sono i genitori vicino a lei e non c’è neanche il marito. Ma lei è felice pensando al momento che l’aspetta.
Oppure, il cambiamento di clima è accompagnato da una riflessione improvvisa che il paziente diventa capace di fare guardando a se stesso in un modo nuovo. Il ragazzo post adolescente, vede una sua foto dell’anno prima e si accorge con stupore di come l’uso di sostanze “mostrificasse” l’espressione, la sua espressione. Ciò che era familiare e scontato si può guardare con occhio nuovo e rivela la sua vera natura.
Oppure, un’emozione in terapia con i genitori di mezza età lascia emergere un pensiero nuovo: per la prima volta è possibile concepire che il rischio di vivere, naturale compagno di viaggio di ogni essere umano, appartenga dunque anche all’amato figlio. Come segno di una vita che si può staccare dalla propria matrice di origine per oltrepassarla.
Perché si preferisce il controllo della ragione all’imprevisto dell’emozione.
Comunque si presenti, questo mutamento non ha niente a che vedere con ciò che, nell’implicito o nell’esplicito, caratterizza le aspettative del paziente e del terapeuta stesso. Il cambiamento non avviene perché si realizzano i presupposti o i desideri che si trovano nello spazio del pensiero cosciente. Nonostante il fatto che è proprio lo spazio del pensabile dove si svolge, in apparenza, il grosso del lavoro di analisi. Il cambiamento avviene in seguito a uno “scatto”, un qualche cosa che salta di livello e che produce un ri-orientamento generale della persona. Dopo parecchio tempo da quella seduta, quando il cambiamento è ormai assorbito ed elaborato, non è infrequente osservare come cambino anche gli obiettivi di vita, quelli più generali e insieme più profondi. Comunque meno legati ai particolari, a quei dettagli sui quali, nella prima fase dell’analisi, tanto pervicacemente il paziente tendeva a incagliare la propria esistenza. Muta la visione della vita perché muta la percezione del proprio desiderio.
Infatti, comunque si presenti, il cambiamento ha un tratto sorprendente che attiene alla tonalità emotiva con cui vengono trattate, ma soprattutto vissute, le stesse situazioni di sempre. Anche se i condizionamenti della vita esteriore apparentemente continuano a stringere il campo di esperienza del paziente in un “orizzonte delle impossibilità”, queste stesse impossibilità vengono vissute in un modo affatto differente.
Sembra che le sbarre della gabbia, o il cerchio di fuoco, o le mura della fortezza che strozzavano l’azione del paziente ora non siano più così caratterizzate da quella assolutezza, da quella componente coercitiva e totalizzante con cui prima si presentavano.
Se sono sbarre che intrappolano un animale da sempre cresciuto in cattività, ancora ci sono, ma adesso appaiono piantate su un limitare più lontano e l’attenzione del paziente è ora rivolta a fare qualcosa o a perseguire un desiderio nello spazio che si è aperto in quel limitare e che finalmente è diventato agibile.
Se è un cerchio di fuoco posto da un demone nemico, adesso le sue braci fiammeggiano lente e basse, meno minacciose, il fumo non copre più la vista e quello che c’è fuori si può ora osservare con attenzione e curiosità. Quello che c’è fuori si scopre desiderabile e il demone dorme.
Se di mura vogliamo parlare, e di come queste cingano la vita del paziente in un freddo abbraccio che permette esclusivamente di sollevare lo sguardo al cielo e di coltivare solo speranze di salvezze o di risarcimenti celesti, adesso appare improvvisamente un’altra ala della prigione, un cortile che si apre su una cinta dotata di feritoie e aperture dalle quali si intravedono cime di alberi che si muovono al vento e case e colori, e ancora altro più in là.
Il cambiamento si presenta sempre con due aspetti: l’uno riguarda lo spazio di vita che risulta meno angusto anche quando è dotato delle stesse barriere di prima. L’altro, riguarda il fatto che in quello spazio che si apre c’è qualcosa di interessante da fare o da osservare.
Da questo momento in poi la terapia prosegue su un binario diverso. Le proposte del terapeuta che venivano accolte con un’espressione di educato scetticismo, oppure con uno sguardo interrogativo come se, delle parole dette fosse possibile capire solo il significato linguistico e non il significato personale, ora, quasi le stesse proposte, vengono riformulate con parole diverse dal paziente, che se ne impossessa e le scopre improvvisamente, vivendole come atto creativo proprio. Da qui in poi il resto viene da sé. E’ possibile che il termine della terapia, dopo la svolta, cominci ad apparire all’orizzonte.
Le sbarre, il fuoco, le mura sono magicamente scomparse? No, allo stesso modo in cui il paziente si presenta a noi con lo stesso contenitore corporeo di sempre, non possono scomparire totalmente, ma qualcosa è mutato radicalmente. Non è più così importante tenere lo sguardo fisso sulle sbarre, è importante utilizzare lo spazio di cui si dispone per costruire qualcosa.
Se poi l’esperienza di costruire qualcosa viene autorizzata in modo continuativo allora le antiche barriere, quando dopo anni si volgerà lo sguardo all’indietro, ne emergeranno completamente trasformate, forse rivelando sin dall’inizio la loro permeabilità e l’inconsistenza della loro funzione costrittiva.
Perché si preferisce non avere scelta piuttosto che averne troppe.
L’incantesimo si è sciolto, ma cosa lo rendeva possibile ?
Lo sguardo fisso sulle sbarre è un’esperienza claustrofobica oppure, al contrario, claustrofilica ?
E’ sicuramente claustrofobica, perché la donna vive un’autentica esperienza di impotenza nei confronti dei sentimenti controversi che la legano al marito, e la vive con orrore. Perché il ragazzo vive un’autentica esperienza di dolore nei confronti della sua dipendenza verso il mondo adulto, e la vive con disgusto. Perché i genitori vivono una reale angoscia di fallimento nei confronti delle difficoltà filiali, e la vivono con disperazione.
Ma c’è in questa esperienza claustrofobica anche un elemento di falsità e insieme di assurdità.
Perché non è il marito a possedere le chiavi della gabbia. Non è l’autonomia del ragazzo un pianeta di un’altra galassia. Non sono i figli a sequestrare le risorse materiali ed emotive dei genitori.
Il vissuto claustrofobico (qui inteso in senso ampio, cioè come l’esperienza di una condizione di vita soffocante e insostenibile all’interno di una dimensione relazionale) è fondato su un presupposto di vita deformato, in cui qualcosa del nostro meccanismo di funzionamento viene messo nelle mani di altro da noi, insieme alla responsabilità di questo funzionamento. Si accompagna ad un fenomeno di svuotamento delle nostre responsabilità.
Il vissuto claustrofobico di tipo panico quando non è motivato da una reale condizione di costrizione esterna, minacciosa, ed a questa commisurato, prende forma nell’atto di deporre qualcosa del nostro mondo interno (qualcosa che ci riguarda) su qualcosa del mondo esterno (quindi percepito come estraneo) e poi viverlo nell’apparenza della totale mancanza di controllo, cioè subirlo. Perdendo così una fetta di responsabilità su quello che ci accade. Questo, anche quando si tratta di esperienze marcatamente sensoriali e con correlati neurovegetativi importanti come ad esempio quelli associati al panico.
Perché si preferisce la limitazione di ciò che è noto alle possibilità che ci riserva l’ignoto.
Se ci troviamo bloccati nel traffico è corretto non potersi muovere, così come se ci troviamo in un ascensore fermo tra due piani. E’ corretto cioè, provare un sentimento di sgradevolezza per l’esperienza di impotenza che stiamo vivendo. Ma è un’impotenza limitata a una circostanza, la quale comunque è posta in qualche misura sotto il nostro controllo, se non immediato, se non individuale, almeno successivo, almeno collettivo, e quindi ancora individuale. Dopo 30 minuti il nodo di macchine si scioglierà. Dopo due ore il tecnico farà scendere l’ascensore al piano.
Perché nell’esperienza claustrofobica panica non ci accade di provare una sgradevolezza commisurata all’impiccio che stiamo vivendo ? Perché ci accade che qualcosa di smisurato, di abissale, di senza fondo, tratto dal nostro interno, venga ad essere posto a carico della circostanza esterna? La quale invece è finita e definita nelle sue caratteristiche pur impreviste e pur contrarie alle nostre volontà. Perché accade che parte del funzionamento di ciò che più ci appartiene, il nostro corpo, divenga improvvisamente estraneo e minaccioso come il senso di soffocamento? E perché accade che tale funzionamento si leghi a un connotato fisico-formale dell’ambiente esterno, come un ascensore bloccato, in una modalità rigidamente associativa magari su base simbolica? Il respiro non riesce più ad andare su e giù.
L’atto di prendere a prestito un elemento del mondo esterno con delle caratteristiche in analogia con qualcosa che preme nel nostro mondo interno è un tentativo di tipo primitivo di contenere un contenuto angoscioso quando non ne abbiamo altri a disposizione. Siamo in contatto di una forma di conoscenza sensoriale più che emozionale, di quel qualche cosa del mondo interno che confusamente ci appare sotto il segno dell’illimitatezza, dell’infinitudine, di una primitiva e caotica esperienza di uno spazio cosmico dentro noi. Uno spazio senza riferimenti alcuno.
Perché si preferisce il tempo sospeso delle fiabe al tempo che scorre della realtà.
L’esperienza claustrofobica panica deriva da un tentativo di contenimento estremo di un fantasma di illimitatezza e, conseguentemente, di frammentazione di ciò che siamo. È un fantasma, ma è anche un’esperienza che ci portiamo sempre con noi, e che solo in certi istanti si presenta alla coscienza nei suoi aspetti spaventanti. E’ corretto che l’essere umano sperimenti in modo così psicologico la presenza di questo fantasma. Perché il suo essere pensante è possibile proprio grazie all’eclissi del funzionamento corporeo che nella sua complessità è caratterizzato da illimitatezza e infinitudine, almeno finché viviamo. Il funzionamento del corpo umano è fondato su un’intersezione di diversi cicli funzionali (respiratorio, circolatorio, metabolico, e molto altro) che si ripetono in modo illimitato. La quantità delle componenti coinvolte da quelle complesse a quelle elementari è, dal punto di vista psicologico, incommensurabile e quindi infinita. Quante cellule muoiono e rinascono in ogni istante se dopo un anno abbiamo cambiato il 90% del nostro corpo? Quanto è complessa la nostra risposta immunitaria se i sistemi che ne fanno parte devono in ogni istante anzitutto stabilire cosa è noi stessi (il self) e cosa non lo è (l’anti-self)? E qualche volta falliscono come nelle malattie autoimmuni ? Quanto è complessa la nostra fabbrica di proteine se continuamente produce errori e continuamente procede a ripararli ? Quanto è fragile il sentimento di essere noi stessi, la nostra identità, che si appoggia e si costruisce su questi meccanismi ? Perché non dovremmo avere un fantasma di frammentazione se la nostra origine e la nostra fine è caratterizzata dalla continuità o dalla discontinuità dei frammenti di cui siamo composti e di cui tentiamo di essere i direttori d’orchestra? Forse più acrobati da circo che direttori d’orchestra ?
Poter dire che noi siamo quello che siamo ha un prezzo altissimo in termini psicologici. È una vicissitudine profonda. E’ frutto di un lavoro costoso e pieno di buchi, di vuoti, di incertezze. Qualcosa che ci costringe a “riparare” continuamente noi stessi. Ma anche a ripararci sempre e comunque nel limite quotidiano che ci definisce e racchiude.
Limite che è costituito dall’esperienza unitaria continuativa che comunque facciamo del nostro corpo e delle sue esigenze, e che si traduce nel cercare contenimento e unità nella e della nostra vita psicologica.
L’esperienza claustrofobica è solo un fenomeno estremo e più visibile, di un complessa attitudine claustrofilica, di una ricerca del limite, di qualcosa che contenga la nostra infinita complessità. Nel lavoro, nelle relazioni, negli amori e nei problemi. Un tendere a chiudere e a racchiudere qualcosa dell’esperienza di noi stessi. Anche delle varie manifestazioni di questo tendere in cui sperimentiamo aspetti improvvisi, traumatici e apparentemente fuori dal nostro controllo, come nel caso dell’ascensore.
Ma tra la donna bloccata nei suoi sentimenti per il marito o la persona bloccata nell’ascensore, non c’è poi sostanziale differenza. Entrambe le situazioni nascono dallo sforzo di dare senso a qualcosa di caotico che avviene in uno spazio interno. Nell’ascensore, nella relazione di coppia o nella propria dimensione corporea. Anzi, in tutte e tre.
Quindi, l’esperienza claustrofobica avviene all’interno di una tendenza claustrofilica, come epifenomeno di questa, unico elemento riconoscibile, punta dell’iceberg, che attira su di sé tutta l’attenzione pur costituendone la paradossale inversione di segno. Dove un limite, un connotato fisico-formale diventa il deposito di tutta l’angoscia che non può essere percepita in altre aree delle propria esistenza. Aree dove, con meticolosità, si procede a manutenere e rinforzare la propria gabbia, il cerchio di fuoco, o le mura della prigione.
Perché si preferisce una certa dose di costrizione ad un’esperienza di eccessiva libertà.
Dall’osservazioneanalitica emerge come il rifiuto per un’esperienza sensoriale sgradevole, tipo un attacco di panico, si presenti in connessione con altre situazioni di vita dove, all’opposto, la persona finisce per assoggettarsi a degli aspetti costrittivi potenti in un contesto verso il quale non può o non vuole cogliere, né esprimere, i suoi sentimenti di opposizione e rifiuto. La donna preferisce andare in terapia per tornare a prendere l’ascensore piuttosto che sfuggire alla relazione costrittiva e frustrante con il proprio marito. Il ragazzo preferisce che l’incontro con lo psicologo lo giustifichi quando abbandona l’auto nel traffico piuttosto che dedicarsi a costruire la sua autonomia dal nucleo familiare. I genitori preferiscono prendere gli ansiolitici per la perdita di controllo sui comportamenti maladattativi del loro ragazzo e in questo modo distolgono lo sguardo da un altra prova che li aspetta: l’entrare nella terza età della loro vita.
L’angoscia claustrofobica è esperienza universale, si colloca in uno spazio delimitato di vita, di una relazione o di una situazione, ma non è altro che un resto, un sottoprodotto di una potente spinta claustrofilica che la persona vive. Fino ad auto ingabbiarsi, per dei motivi legati ad imparare a stare nel proprio corpo, a convivere con la propria complessità e i limiti che da questa derivano. Ma anche, imparare a riconoscere, come essere umano cosciente e consapevole, i gradi di libertà di cui ogni esistenza dispone nelle diverse età che attraversa. Imparare a negoziare quello che accade nel nostro corpo con quello che accade fuori di esso. Il corpo inteso come origine e flusso continuo di tutta la nostra molteplice e contraddittoria vita emotiva.
In questi gradi di libertà, c’è la possibilità, anzi la responsabilità, di scegliere cosa si vuole essere e come si vuole vivere all’interno dei limiti e delle possibilità del contesto di vita che si presenta, nei diversi cicli dell’esistenza. Accade, a volte, che questa possibilità di scegliere sia percepita come insostenibile dal soggetto. Accade, che sia preferibile liberarsene. Che sia preferibile trovarsi qualcosa o qualcuno che ci blocchi. Spesso una relazione, qualche volta un votarsi a una causa. Che sia preferibile svuotarsi di questi gradi di libertà e soffrire delle restrizioni di una situazione, piuttosto che prendere coscienza che la porta della gabbia è aperta e che potremmo scegliere possibilità alternative al restarci dentro.
Perché là fuori c’è il mondo con tutte le sue incognite e tutte le sue variabili. Con tutto il suo potere di emozionarci e quindi spaventarci. Ma è umano averne paura. Non è questa vigliaccheria, pavidità, debolezza, termini che alle volte usano gli stessi pazienti quando il percorso analitico li mette di fronte all’evidenza e alla difficoltà di fare una scelta. È una dimensione che ci riguarda tutti, coraggiosi e non. È una dimensione dell’esistenza che richiede di essere sorpassata e non una sola volta nella vita, ma diverse volte. L’esistenza di un essere dotato di caratteristiche di continuità dell’Io. Un Io che, nel vivere sociale, richiede uno sforzo continuo di costruzione e ricostruzione del proprio profilo, così come richiede i dati scritti su un documento di identità, una storia di vita che si possa narrare, una serie di valori che si possano trasmettere da generazione a generazione. Ma anche, è un essere che fin da giovane è consapevole, magari in modo anche solo subliminale, del suo tragico e progressivo ridiventare frammento, alla faccia di tutti i diversi “Io” che ha indossato durante la sua esistenza.
Perché si preferisce la finzione dell’ideale al possibile del reale.
Sperimentare dei fantasmi interni, anche se frustranti e spaventosi, è allora un atto di creatività della mente umana. E’un potere, non una malattia. Di una mente posta in mezzo a una contraddizione di vita insolubile: difendere la continuità all’interno di una macchina che digerisce ogni forma di continuità. Difendere l’essere contro il divenire. Una contraddizione che non si supera mai una volta per tutte, ma che può essere abitata in modo più o meno armonico a seconda che questi fantasmi si strutturino rigidamente o lascino spazio alla possibilità di fare esperienza di altro, magari anche di altri successivi fantasmi. Superati quelli, infatti, ne nasceranno di nuovi. Ulteriori impossibilità in cui credere pervicacemente, come avveniva in precedenza per quelle ora sfumate.
Alla fine, quello che rimarrà non è il superamento finale e magico di tutti i limiti e di tutte le paure o all’opposto la realizzazione di tutti gli ideali, che forse è ancor peggio. Ma il passare attraverso tutti i limiti e tutti gli ideali, lasciandoli dietro di noi. Quando ci volteremo indietro sentiremo la densità umana di questo percorso, e insieme, l’imperativo a trasformarlo in narrazione, per noi stessi e per chi ci è vicino.
Il confine delle impossibilità fa parte dell’esperienza di esserci, come individuo. E anche, come quel di più dell’individuo che, se esiste, è forse il dono più grande che resta sul campo a partire da tutte le nostre esperienze dell’impossibile.
Questo è un mistero inspiegabile con la ragione. Meglio riprendere alcune parole della canzone “L’orologio americano” di Ivano Fossati”.
“Perché è così che la gente vive
Perché è questo che la gente fa
Perché è così che ci si insegue
Per un morso di immortalità”.
Buon Universo a Tutti !
Written by: mind_master
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