Radio K55
Data di pubblicazione: 26/04/2025 alle 18:23
“La definizione di donna deve essere basata sul sesso biologico”. Così si sono espressi all’unanimità i 12 giudici della Corte Suprema del Regno Unito. Ovvero, l’istituzione che, in qualità di massima corte d’appello, si occupa dei casi di maggiore importanza pubblica o costituzionale che riguardano l’intera popolazione della Gran Bretagna. Si chiude così una questione durata più di 10 anni e che aveva visto la contrapposizione di associazioni femministe e associazioni transgender.
La questione deriva dalle conseguenze del ben noto tema che sorge quando una persona si sente appartenere a un genere diverso da quello di nascita. La psicodiagnostica moderna, che dà un nome a ogni cosa, ormai anche alle mosche quando volano storte, la chiama “disforia di genere”. La Treccani definisce la disforia come un
“Disturbo dell’umore affine agli stati di depressione e di irritazione, nel quale ha una particolare importanza l’orientamento verso tonalità spiacevoli”
E’ curioso come il sentirsi appartenere a un genere diverso da quello biologico debba per forza essere definito come un disturbo. Probabilmente ciò consegue al fatto che questo sentimento di diversità incontra problemi di inserimento nell’ordine sociale di appartenenza. Ma in ogni caso non dovrebbe essere considerato un disturbo della persona, la quale può, invece, sentirsi tutt’altro che depressa anche in un corpo che avrebbe desiderato diverso. D’altronde, il pianeta è pieno di umani che vorrebbero un corpo diverso da quello che hanno, se è per questo, tra chi è giovane e non si piace e tra chi giovane non lo è più. Piuttosto, dovrebbe essere considerato un disturbo della relazione tra la cultura di riferimento e la novità che questa persona introduce nell’idea di norma, attraverso la sua volontà di assumere comportamenti e apparenze tipiche dell’altro genere.
Disforie culturali
Per evitare l’emergenza di un problema sociale, nel 2004 Il Regno Unito ha introdotto un certificato, il Gender Recognition Certificate, che dà riconoscimento legale al genere vissuto anche se diverso da quello biologico. Lo scopo di questo certificato è quello di consentire una piena corrispondenza della documentazione anagrafica al genere vissuto, per tutto l’arco vitale, dalla nascita, al matrimonio, alla morte. Ciò vale, anche quando la persona sceglie di non sottoporsi a interventi chirurgici o trattamenti medici. Inoltre, una legge del 2010, l’Equality Act, protegge le persone da attività discriminatorie condotte a loro danno per una serie di motivi. Tra questi, specifica che è illegale discriminare, molestare o vittimizzare qualcuno, a causa della Riassegnazione di Genere.
Sulla base di queste leggi, per il governo scozzese una donna transgender in possesso del certificato era da considerarsi donna in tutti i contesti. Ma ciò poneva dei problemi che sono stati sollevati in particolare da alcune associazioni femministe, le stesse che hanno promosso la causa legale di cui sopra. C’è chi pensa, infatti, che l’accesso delle donne transgender a spazi riservati alle donne biologiche possa minacciare la sicurezza e la privacy di queste ultime.
Ma anche, che nelle competizioni agonistiche le atlete transgender siano indebitamente avvantaggiate dalla costituzione maschile di nascita. Infine, che anche la rappresentanza politica in termini di quote di genere vedesse diminuire la tutela verso le donne di nascita a causa delle donne transgender.
A conferma dell’aspetto dilemmatico della questione, nel 2023, il caso di Isla Bryson, transgender, che nei panni di Adam Graham, prima della transizione, aveva stuprato donne in due occasioni ed era stato perciò condannato al carcere. Solo che, mettere in un carcere femminile un ex-uomo accusato di stupro ha suscitato una sollevazione popolare da costringere il primo ministro Scozzese, Nicola Sturgeon, a trasferire precipitosamente il soggetto in un carcere maschile, in barba al vissuto di Isla.
Recentemente, nell’Università del Maryland negli Stati Uniti, durante una gara di fioretto femminile, una schermitrice si è rifiutata di combattere con un’atleta transgender andando incontro alla squalifica. Le sue parole sono state:
«Sono una donna, lui è un uomo e questo è un torneo femminile. E non tirerò di scherma contro questa persona».
Insomma, sicuramente tanta disforia, ma di tutti i generi, non di uno o due soltanto. Ecco un altra declinazione del tema di cui abbiamo tante volte scritto nei precedenti articoli: la rivoluzione antropologica divenuta evidente nel XX secolo che ha rimescolato ogni presunta certezza su cui gli umani confidavano nei secoli precedenti.
La rana e lo scorpione
Ma il problema di dover rispondere secondo la propria natura anche quando si vorrebbe essere qualcosa di diverso, è un bel dilemma per tutti gli umani, anche al di fuori del tema dell’identità di genere.
Ne parla argutamente il film del 1992 “La moglie del soldato” di Neil Jordan. La vicenda mette di fronte in modo imprevisto un terrorista dell’IRA con la compagna di un soldato dell’esercito britannico. Il soldato Jody muore in un conflitto tra terroristi e forze governative, ma prima di morire affida al terrorista Fergus il compito di portare un ultimo messaggio d’amore alla sua compagna:
«Voglio che tu vada a cercarla e dirle che l’ho pensata»
Fergus esegue, ma finisce per innamorarsi di Dil, la compagna del soldato morto.
Così facendo scopre la natura transgender della ragazza che nulla toglie alla qualità umana del loro incontro. Si tratta di una niente affatto scontata riflessione sulla complessità della natura umana e dei rapporti interpersonali, ben sintetizzata nella favola dello scorpione e della rana che il soldato racconta a Fergus nella prima parte del film e che questi ripropone alla ragazza nella battute finali. In questa vicenda tutti i protagonisti devono essere fedeli alla propria natura, che non è da subito evidente, ma si svela compiutamente durante il percorso, soprattutto nei momenti critici. Anche se, per scoprirla occorre pagare un prezzo. Perché li mette l’uno contro l’altro, ma anche l’uno contro se stesso, almeno per qualche aspetto. Proprio come la rana e lo scorpione, la favola, forse di Esopo, che racconta l’impossibilità di autodeterminare ogni aspetto di se stessi e del proprio percorso di vita. Un film dove nessuno è normale, ma non si parla di disforie come scostamento da una norma e nemmeno si accenna ad esse. Si descrive solo come, casomai, la disforia è un’esperienza ineliminabile della condizione umana anche se non la esaurisce.
Carceri, vecchie e nuove
In più occasioni dei precedenti articoli ( “te piace ’o presepio?” , “il naso degli umani pende verso destra”, “La leggenda del grande inquisitore”, “non essere cattivo”) ci siamo trovati a sottolineare che la rivoluzione antropologica della contemporaneità è iniziata quando sono saltati i riferimenti morali condivisi circa i comportamenti degli umani. E’ stato sicuramente un grande progresso scoprire che il buono e il cattivo non possono essere sempre definiti dall’alto, da un’autorità divina o morale. Scoprire cioè, che le valutazioni sul buono e il cattivo cambiano nel momento in cui si cambia la prospettiva da cui si guarda, fino a, in certe situazioni, ribaltarsi l’uno nell’altro.
E’ stato un grande progresso, che ha lasciato sul campo molta più libertà di autodefinirsi, di autodeterminarsi e quindi di essere. Però sembra che da questo movimento dell’animo collettivo umano si sia rimbalzati in un eccesso di ricerca della tempesta perfetta. Dell’autodeterminarsi nei minimi dettagli del diritto e anche della linguistica (vedi al proposito l’articolo “Umani, così non scwha eh?”) facendo percepire qualsiasi impedimento che il vivere in una comunità complessa pone sulla via delle libertà individuali, come un sopruso da rifiutare sdegnati. Si è usciti dal carcere della morale collettiva per rinchiudersi in quello dell’ideale individualistico portato all’estremo. Tutto ciò ha generato grandi tensioni tra fazioni di pensiero contrapposte.
Ma ora facciamo un breve stacco musicale ascoltando la canzone Crying game così come la canta Dil nel film.
Relativismi assoluti e papati relativi
Due conclavi fa, era aprile 2005, l’allora cardinale Joseph Ratzinger, di lì a poco Papa Benedetto Sedicesimo, in un’omelia affermava:
«si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie»
Con gli occhi di oggi, appare chiaro che si trattava di un pensiero di restaurazione. La Chiesa non sapeva come rapportarsi alla fine dei riferimenti morali collettivi e il suo papato aveva la missione di cercare di ristabilire la priorità del riferimento morale assoluto che tanto aveva fatto “Chiesa”, dalla notte dei tempi.
Ma proprio in questo fine settimana si è consumato il rito del distacco da Papa Bergoglio. Da capire chi ha salutato chi. Se sono gli umani che si sono accalcati per salutare il papa o se è stato il papa che ha salutato gli umani.
Secondo la Street Artist Laika, non ci sono dubbi su chi ha salutato chi. Basta dare un’occhiata al suo ultimo murales comparso in via Piccolomini, vicino a San Pietro. Si intitola “Gli invitati” e ritrae Papa Francesco che si stupisce della lista degli invitati che si sono autoinvitati, ma che, fosse stato per lui, sarebbero rimasti a casa.
Fate Vobis
Il saluto decisivo comunque deve essere stato quando il papa ha ricevuto pochi giorni fa un rappresentante del nuovo corso politico vincente, James David Vance, vicepresidente USA.
Il quale lo saluta con le parole “La vedo meglio, Santità”. Parole che, dette solo qualche ora prima della sua morte, ricordano qualcosa dell’ultima cena di Gesù.
A quel punto, secondo me, Papa Francesco ha capito che poteva salutare tutti: “Io ho dato, facite vobis”.
E tra quello che ha dato c’è stato sicuramente un papato non di restaurazione. Con questo Papa la Chiesa ha ripreso coraggio nel cercarsi un posto nella modernità.
Infatti, Gian Guido Vecchi dalla pagine del Corriere della Sera del 25 Aprile, racconta cosa accadde il 9 Marzo 2013.
Era un solo conclave fa, pochi giorni prima della fumata bianca :
“Si alzò il cardinale di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio e, un foglietto in mano, pronunciò un discorso di pochi minuti. Disse che «la Chiesa è chiamata a uscire da sé stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali»”
E poi Vecchi continua:
“In questo caso ne conosciamo il contenuto perché il cardinale cubano Jaime Ortega, colpito, chiese all’arcivescovo di Buenos Aires il testo degli appunti. In effetti ne rimasero tutti colpiti: in poche righe, c’era il programma del pontificato.”
Periferie esistenziali
Se la ricerca dell’umano può rivolgersi verso le periferie, sia geografiche che esistenziali, allora l’umano è salvo. Non è più costretto a incarcerarsi in qualche tipo di norma o di libertà dalla norma. Perché nelle periferie non valgono le definizioni, vale ciò che è. Così come nel film quando Fergus scopre la natura di Dil, dopo il primo sconcerto può amarla perché vale ciò che è, non la norma. Al punto da sacrificarsi andando in carcere al posto suo. Nell’ultima scena Dil va a trovare Fergus in carcere e gli domanda:
“Non c’è amore più grande, come diceva Jody, Vorrei che mi dicessi perché”
E questi risponde:
“come diceva Jody, è nella mia natura… C’era una volta uno scorpione..”
A proposito, sapete cosa ha fatto del grande successo ottenuto nel film l’esordiente Jaye Davidson, che per caso si è trovato a fare la parte di Dil ? Insofferente della fama ottenuta con il successo ha abbandonato per sempre la professione di attore. Era la sua natura.
Corte Suprema o Corte Relativa ?
Insomma, già il fatto che la sentenza di cui sopra è venuta da un’organismo che si chiama Corte Suprema, fa capire quanto gli umani siano attualmente dibattuti tra aspirazione alla libertà individuale e nostalgia dell’assoluto.
La contesa tra le associazioni femministe e transgender è comprensibile e motivata da entrambe le prospettive. Ci sono ragioni da entrambe le parti. Ma quando lo sforzo di perseguire la legge ideale, la società ideale e il linguaggio ideale si assolutizza, diventando pretesa, elevando il diritto personale o di categoria a idolo della modernità, si perde qualcosa di profondamente umano. Si perde e si disperde. Perché non si recupera più. E non basta un “DIS” per collocare queste perdite da qualche parte.
Dal nostro articolo di inizio 2024 “La nave dei folli” che tratta l’argomento a fondo, riportiamo ancora una volta le parole di Massimo Recalcati:
“Il vero folle è l’uomo iperadattato, colui che pretende di separare la malattia dalla soggettività, che crede, in altre parole, di essere normale. Ne deriva, a rovescio, che una versione positiva della salute mentale non coincide affatto con la realizzazione dell’ideale normativo di una vita senza sintomi. Piuttosto il sano di mente assume l’impossibilità di quell’ideale poiché i suoi sintomi non sono anomalie da normalizzare, ma coincidono con il suo stesso essere”.
Dunque umani, non vi attaccate troppo al desiderio di realizzare perfettamente l’immagine ideale di voi stessi, che si tratti di genere, di salute o di altro. Per due buoni motivi. Il primo, perché il tempo porta via tutto e se non sapete valorizzare anche ciò che non ricade nell’ideale, la perdita di efficienza corporea si accompagnerà a un decadimento spirituale, questo sì assai disforico. Il secondo, che per quanto un’immagine ideale sia splendente, sarà comunque una banalizzazione fortemente riduzionista rispetto alla complessità di quello che già siete e alla bellezza nascosta in questa sfilza di contraddizioni che è l’essere umano.
Ma soprattutto, portate rispetto per l’impresa di provare a tenere insieme questa complessità lungo una vita intera. Magari facendo acrobazie per mantenere un qualche tipo di coerenza, in mezzo all’emergere e al compiersi della propria natura, scorpione o rana o altro che essa sia.
Questa sì è una vera impresa.
Buon universo a tutti!
Scritto da: mind_master
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