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La leggenda del santo genitore

today13/04/2025 - 18:45 8

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Data di pubblicazione: 13/04/2025 alle 18:45

Tra i tormentoni che circolano riguardo le serie tv imperdibili di queste ultime settimane dobbiamo annoverare sicuramente la famosa “Adolescence”, assurta agli onori della cronaca anche per i numerosi articoli sulle pagine dei quotidiani più diffusi che recentemente ne hanno parlato. Una serie che, se non altro, ha avuto il merito di far conoscere anche in Italia il tema di quelle subculture misogine tipo la “Incel” di cui abbiamo già diffusamente parlato nell’articolo “umani, così proprio non schwa eh ?”. Incel è un acronimo che si potrebbe tradurre come “i celibi loro malgrado”. Strana la scelta della parola celibi per autodefinirsi da parte di questa nutrita comunità. Perché sembrano uomini che anelano il matrimonio ma lo fanno in modo assai curioso. Non come un rito dove due esseri umani si promettono dedizione per gli anni a venire, ma come una sorta di espediente per “collocare” quella parte del loro funzionamento pulsionale che, se insoddisfatto, risulta di impiccio nel realizzare il profilo ideale della figura maschile. Il matrimonio ridotto a una specie di garage dove parcheggiare la supercar della loro identità maschile. Che poi ogni super rimanda a un deficit. Ma questo è discorso scivoloso.

Tornando alla serie tv, delle quattro puntate di cui si compone è solo nell’ultima che si svela il vero tema di fondo e non è quello dell’adolescenza. Ovviamente, di adolescenza se ne parla tanto ma, forse, in modo un po’ stereotipato. Piuttosto che interrogarsi sulla complessa esperienza di essere un adolescente nel terzo millennio, i giovani protagonisti portano alla visibilità dello schermo un elenco dei comportamenti disfunzionali dell’adolescente:

bullismo, violenza, ansia di prestazione, fuga dalla realtà, negazione, rabbia, immaturità, analfabetismo emotivo, ecc…

Però, trattati così, questi comportamenti sembrano tante citazioni tratte da un manuale di psicopatologia adolescenziale.

Mentre invece, curiosamente, la serie si sofferma di più sul descrivere le emozioni degli adulti che si relazionano agli adolescenti, in particolare dei due padri che compaiono sulla scena e della psicologa che viene investita dalla violenza caotica del ragazzino protagonista della serie. Si concentra di più nel mettere a fuoco il “sentire” degli adulti in relazione all’adolescenza e all’esperienza genitoriale, piuttosto che il “sentire” degli adolescenti in relazione al mondo in generale.

Ovviamente una serie tv non può avere la pretesa di trattare temi così complessi in profondità ed è già un successo parlarne. Quindi va bene così. Però, arrivati a questo punto, cerchiamo di portare un pò più in là gli stimoli che la visione di questa serie cult lascia sul campo.

Genitore fa rima con bevitore

Il titolo scelto per il presente articolo fa il verso a un famoso racconto da cui fu tratto anche un riuscito film di Ermanno Olmi. Si tratta di un libricino di una settantina di pagine pubblicato postumo e scritto da Joseph Roth, scrittore e giornalista austriaco che morì a Parigi nel 1939. Il titolo originale è “La leggenda del Santo bevitore” e racchiude in sé una contraddizione già degna di nota: come fa a esistere un bevitore santo?

Il racconto si snoda attraverso alcune vicende di Andreas, un povero alcolizzato che riceve in dono dei soldi da uno sconosciuto. Una storia dove abiezione e virtù si intrecciano in un intrigo in cui mai si capisce dove inizia l’una e finisce l’altra.

Roth, pur nella rievocazione necessariamente anche autobiografica, in questo racconto descrive un aspetto più generale dell’esperienza dello stare al mondo come esseri umani. Dove il perdersi e il riscattarsi sono continuamente in bilico. Dove il cedere alle debolezze e la tensione verso un’ideale si rincorrono in un gioco di rinnegamenti reciproci. Dove il dono gratuito e la perdita si rievocano l’un l’altro come facce di una stessa medaglia.

Non so per quale strano motivo questo testo mi fa tanto pensare all’esperienza di essere genitori, specialmente nel terzo millennio. Anche nell’essere genitori, infatti, si può provare l’esperienza del sentirsi persi e del doversi riscattare, e spesso accade.

Per un morso di immortalità

Infatti, la quarta puntata della serie “Adolescence” è incentrata sull’esperienza di essere genitori che ricorda quella del Santo Bevitore. Bisogna essere pronti a ricominciare da zero, in ogni momento. Nonostante tutte le migliori intenzioni di offrire a un figlio il meglio, ad un certo punto del percorso, si scopre che quello non è il meglio per quel figlio e bisogna ricominciare da capo. I figli sono un dono che arriva da lontano così come Andreas riceve in dono soldi che arrivano da lontano. Da lontano, perché i figli, anche quando sono pensati, preparati, immaginati, attesi e ricercati con sforzi anche notevoli, rimangono il frutto di forze vitali che oltrepassano di gran lunga l’essenza e i valori in cui il genitore si identifica. In un figlio si possono esprimere le attitudini più varie sulla base di genomi anche molto lontani della vicenda evolutiva umana. A dispetto di tutte le apparenze, non sono figli di quel genitore, sono figli dell’umanità, della vita sul pianeta terra, molto prima e molto oltre la persona del genitore stesso. Ma il genitore ha sempre il desiderio profondo di riconoscersi in quel figlio. Forse, per dare un morso all’immortalità degli dei, attraversando l’illusione di continuare a vivere in lui.

Deludere per nascere

Si comincia già dalla culla, con il gioco delle somiglianze, e si continua per tutta l’età evolutiva a cercare di scorgere nel figlio quei tratti che ne facciano il proprio erede materiale e spirituale. Ma se le cose vanno al meglio, se il figlio è abbastanza “sano”, prima o poi deluderà la fantasia di quel genitore e si affermerà come quella persona distinta che è sempre stata anche quando ne dipendeva totalmente. Se invece non la delude mai è un guaio, perché è probabile che svilupperà nel corso della sua esistenza un sintomo psicopatologico. Un sintomo che, però, potrà essere anche la sua opportunità di salvezza, perché lo richiamerà, magari in età adulta, a occuparsi di sé stesso in modo più profondo e completare così il suo percorso di essere umano individuato.

Ma il guaio peggiore accade quando il genitore non ammette delusione di sorta e continua a sostituire all’immagine reale del proprio figlio quella ideale del proprio mondo interno. Si rifiuta, per proprie fragilità, di cogliere la realtà di un figlio altro da sé. Allora può capitare che il figlio, dapprima cerchi di segnalare la sua non corrispondenza all’immagine del genitore senza riuscirvi. Poi, decida di trovarsi una zona di comfort in cui nascondere la sua alterità per non avere problemi, simulando la corrispondenza all’immagine genitoriale. Ma le differenze nascoste si accumulano l’una sull’altra e prima o poi crolla tutto svelando la grande distanza tra ideale e reale. Talvolta nel modo più drammatico possibile, come racconta la serie tv.

La cameretta rifugio

L’ultima puntata della serie TV svela che il padre intendeva offrire al figlio quella paternità benevola che tanto avrebbe voluto ricevere lui come figlio. Ma anche, che si trova in difficoltà a riconoscere le differenze dal suo ideale di figlio che il ragazzo gli presenta con il suo comportamento. Già in precedenza, il figlio aveva lasciato emergere la sua alterità deludendo le aspettative di successi sportivi del genitore. Ma il genitore non ce l’aveva fatta e aveva girato la testa per non vedere.

Solo alla fine, davanti alla catastrofe, davanti all’evidenza della violenza commessa dal figlio, lo vede per come è, con tutte le sue debolezze e fragilità emotive. In queste sì che assomiglia al padre, ma sono proprio quelle che il padre non poteva riconoscere in se stesso.

“pensavamo che in quella cameretta fosse al sicuro”

dice il padre alla madre cercando di ripercorrere le tappe che hanno condotto alla scoperta del figlio vero. La stanzetta come zona di comfort nel quale l’intera famiglia si adagia quando non è pronta ad affrontare verità più profonde.

Ma la violenza porta dolore e nel sopportare il dolore si impara ad accettare quelle verità prima sfuggite. La serie si conclude con le parole del padre che si scusa con il figlio dicendo che avrebbe potuto fare di meglio come padre.

Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altro Dio all’infuori di me

E’ questo il titolo del primo cortometraggio tra i dieci che compongono “Il decalogo” del regista e scrittore polacco Kieślowski. Un’opera per la televisione trasmessa a partire dal 1989. Ogni episodio è indipendente dagli altri, e racconta una storia di vita quotidiana ispirata in modo più o meno esplicito a uno dei dieci comandamenti biblici. Il primo di questi racconta di una famiglia composta solo da un padre e un figlio preadolescente. Il padre è un professore universitario che cresce il figlio da solo nella periferia popolare di Varsavia. I due sono molto legati ma il papà è un grande appassionato di informatica, e pensa che tutta la vita possa essere descritta matematicamente con un linguaggio di programmazione, secondo una visione puramente materialistica.

Da ciò, si capisce che, sul figlio, il padre concentra tutto l’investimento emozionale e il senso affettivo della sua vita, peraltro abbastanza scarna. La trama si sviluppa verso la perdita di questo figlio che rimane intrappolato in un lago ghiacciato. Il regista riesce a raccontare con molta efficacia il dramma di un padre che aveva investito tutta la parte migliore della sua esistenza sull’unico figlio. Ma è il titolo del film ciò che fa riflettere. Anche per chi non si sente vicino al punto di vista religioso è comunque possibile leggere nei contenuti di una religione qualsiasi, un patrimonio di riflessioni sull’umana condizione, un patrimonio che ha valore.

Da questa angolazione, “Non avrai altro dio all’infuori di me” può anche essere letto come “non farai di una cosa o di una persona un idolo cui votarti totalmente”. In psicologia, tutte le volte che si osserva una persona che si fa totalizzare da qualcosa o da qualcuno si rileva anche una certa quantità di malessere. C’è un nucleo problematico. La psiche umana non funziona bene quando si focalizza su un unico valore. Facile trovare il problema se si tratta di una dipendenza da sostanze o da relazioni amorose. Molto più difficile se si tratta di una relazione genitore figlio. Perché l’enorme investimento di energie di cui un figlio necessita nel tempo, porta a fraintendere il valore delle cure genitoriali scambiando per oblatività alcune necessità silenti del genitore.

Il corto di Kieślowski fa sentire come anche l’amore più bello, se diventa totalizzante, può mettere a rischio il rapporto con il senso della propria esistenza. Nel finale, Dio, attraverso la figura del genitore per eccellenza, ovvero una statua della Madonna, piange simbolicamente insieme al padre, come per condividerne il dolore. Se c’è un dio, sottolinea Kieślowski, non può comunque intervenire nelle vicende umane, ma solo piangere insieme le loro disgrazie. Essere genitori, a volte, diventa un dilemma irrisolvibile e ci si può sentire totalmente soli.

Figli come soldi

Ma torniamo al racconto di Roth. I soldi che incrociano il percorso di Andreas arrivano da lontano come un mistero, così come i figli arrivano per strade apparentemente conosciute ma comunque largamente misteriose.

Andreas questi soldi li ha con sé, ma non gli appartengono mai del tutto. Li spreca usandoli per strappare una parvenza di vitalità alle sue vicende umane, oppure, quando miracolosamente ritornano, sa che non li può tenere e li dovrà restituire portandoli in offerta alla santa di una vicina Chiesa, indicata dal suo primo benefattore.

L’esperienza del genitore si dibatte tra queste due alternative contraddittorie. Si cavalca la genitorialità per strappare un pò di vita futura alla vita che passa, ma il compimento più alto della genitorialità giunge solo quando si esaurisce. Quando si restituiscono i figli al rischio del vivere, come solo loro lo possono assumere. Esattamente come i soldi che creano valore, non quando sono messi sotto il tappeto, ma quando vengono fatti circolare. Il benefattore dona soldi ad Andreas, nelle prime pagine del racconto, ma questi da subito sa che li potrà usare nella misura in cui dovrà anche saperli restituire.

I figli danno l’illusione dell’immortalità ai genitori pur rimanendo degli estranei rispetto alle fantasie che su di loro i genitori nutrono. Ma nonostante l’errore di fondo, in queste fantasie c’è forse la parte migliore dell’umano. Grazie a queste fantasie arriva ai figli un investimento enorme di energia sotto forma di un’idea di speranza e di bellezza. In una parola lo potremmo chiamare amore. Il paradosso è che il figlio deve smarcarsi da questo amore se vuole portare oltre la sua energia vitale. Se vuole scoprire che dietro quelle illusioni genitoriali c’era anche un valore da ereditare, da fare proprio e da porgere al futuro.

Come fa a esistere un santo genitore?

Quando andarono a chiedere a Freud come si poteva fare il genitore senza fare errori, questi rispose di non preoccuparsi troppo perché qualsiasi cosa si faccia come genitore si sbaglia comunque. Un mestiere che Freud considerava “impossibile” come quello del governare e dello psicoanalista (!). Nell’articolo “The song remains the same” abbiamo già riportato un brano di Freud sui meccanismi per cui non sbagliare come genitori è impossibile.

In effetti da quanto abbiamo detto, il genitore è un mestiere del tutto paradossale. Lo porti a compimento solo se lo fai fallire, almeno per una parte dei suoi intendimenti. E solo se permetti al figlio di smarcarsi da quanto tu gli hai trasmesso. Così come il mestiere di figlio è portato a compimento se, dopo essersi smarcati, si è capaci di ereditare il valore nascosto dietro l’errore della proposizione genitoriale. Scartata l’illusione rimane la bellezza e la speranza che sono impliciti in ogni insegnamento d’amore. Un eredità preziosa, che non avrebbe potuto trasmettersi senza una quota parte d’illusione.

Il santo genitore, se esiste, inizia a esistere quando finisce il santo figlio.

Buon universo a tutti !

 
 

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Written by: mind_master

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