Radio K55
Data di pubblicazione: 09/02/2025 alle 18:38
Una discesa nel Maelström
I roboanti fatti internazionali dello scorso mese di Gennaio, dove le dichiarazioni dei diversi protagonisti si sono susseguite e sovrapposte come uno spettacolo di fuochi di Artificio di Capodanno, ci hanno distratto forse troppo.
La storia non la scrivono solo Trump e Musk, per fortuna. Qualche assassinio senza pretese lo abbiamo anche noi qui in paese, cantava De André. Ma non di un assassinio voglio parlavi oggi anche se forse, stava quasi per diventarlo.
Il 12 Gennaio scorso è comparsa sul Corriere della Sera un’intervista della direttrice dell’agenzia di stampa “LaPresse”, Alessia Lautone, di 58 anni. Vi riporto di seguito qualche estratto delle domande e risposte incluse nell’intervista.
Farmaco in inglese si dice Drug
“Ho preso la semaglutide per dimagrire e ho avuto pensieri suicidi. Mi sono vista sdoppiata, una parte di me, calmissima, era pronta a morire”.
> Quando si è allarmata?
«È cambiato tutto radicalmente dopo un mese, quando ho aumentato il dosaggio. Da lì in poi mi sono scoperta disinteressata a tutto, perfino alle telefonate dei miei figli. E una notte sono arrivati i pensieri suicidi».
> Come li ha formulati?
«Ho avuto il pensiero lucido di dovermi buttare dalla finestra. “Dovevo” proprio farlo. E poi ne è subentrato un altro: usa i coltelli, è più facile. Mi sono vista sdoppiata: una parte di me, calmissima, era pronta a morire; un’altra non si capacitava».
Il semaglutide è un farmaco usato per curare il diabete di tipo 2 oppure per il trattamento di certi casi di obesità. E’ diventato molto noto grazie al solito Elon Musk (sempre lui che noia!) e altri personaggi celebri che ne hanno magnificato le proprietà dimagranti. Anche se ormai molti medici hanno pubblicamente dichiarato l’improprietà e i rischi di un siffatto uso, l’esperienza di Alessia Lautone ci dà qualche spunto per riflettere la connessione con le strane forze che si muovono nella psiche degli umani.
I Disturbi alimentari
Sempre dall’intervista suddetta ad Alessia leggiamo:
> I suoi amici non sanno dei suoi problemi alimentari?
«No, maschero bene. La mia fortuna, se vogliamo dire così, è di essere sempre stata border line. Sono una che lavora tantissimo e fa sport, ho un aspetto sano».
> Quando si è resa conto di avere un rapporto complicato con il cibo?
«Intorno ai 12-13 anni, quando sono un po’ ingrassata. È allora che ho cominciato ad alternare le abbuffate ai digiuni. Ma non ho mai rimesso quello che mangiavo».
> A casa se ne sono accorti?
«No. Io ero la figlia forte. Non ho mai dato motivo di preoccupazione».
I disturbi alimentari sono un fenomeno particolare. Anche quando si svelano in età adulta come nel caso di Alessia trovano il loro meccanismo di innesco in conseguenza dello sviluppo puberale, pur rimanendo nascosti ai più nelle segrete stanze delle menti giovanili. Tanto più il soggetto è dotato di forza mentale, tanto più è capace di nascondere i sintomi a se stesso e agli altri. In questo modo, se il disturbo non viene trattato, tende a cronicizzarsi e a rimanere latente sotto le apparenze di una vita di successo. Tranne poi a riemergere non appena un elemento critico, come quello della mezza età di Alessia immaginiamo, interviene a turbare gli equilibri della persona circa il vissuto dell’immagine di sé. Così si svela la presenza dei disturbi alimentari anche in età adulta. Fenomeno nascosto ma molto diffuso, da non trascurare. Infatti, come lei, anche tante altre donne di successo. Famoso il caso di Fiorenza Sarzanini, vice direttrice del Corriere della Sera e autrice del libro “Affamati d’amore”, in cui ha diffusamente parlato della sua personale esperienza con il disturbo alimentare per aiutare a comprendere il fenomeno e a non nasconderlo. Da questo libro leggiamo:
«Quando sei malata non lo capisci. Arrivi al fondo e non te ne rendi conto. L’immagine che vedi riflessa nello specchio è un’altra. Una te che non corrisponde alla realtà. Si chiama “dispercezione”, adesso lo so. All’epoca non ne avevo idea.” «Sono passati 30 anni, sono guarita. Ma quando viaggio porto la bilancia».
Una figura mitologica
Potremmo dire che i disturbi alimentari si situano a cavallo tra una psicopatologia individuale, ovvero che trova nessi nella storia e nelle predisposizioni caratteriali e familiari dell’individuo, e una psicopatologia collettiva, ovvero che si alimenta di confronti con la pressione di alcune immagini culturali dominanti. In particolare tutte quelle che forniscono le indicazioni su come essere uomini e donne moderne, funzionali per attrarre consenso e approvazione pubblica.
Una sorta di animale mitologico, metà uomo e metà animale, metà individuo e metà cultura. Un centauro. No non va bene, meglio una Sfinge. Nemmeno, perché per gli egizi la Sfinge aveva un valore addirittura protettivo. Meglio ancora le Arpie! Un animale enigmatico e spaventoso. Natura di uccello rapace con volto di donna. Il loro nome significa rapitore e i disturbi alimentari rapiscono alle loro famiglie proprio le bimbe che stanno per sbocciare all’adolescenza attraverso la negazione del corpo adolescente. Le Arpie erano inizialmente esseri dall’aspetto di bellissime donne alate ma che si trasformano in mostri sempre affamati di fame.
Infatti Zeus affida loro il compito di far rispettare la punizione imposta all’indovino Fineo le cui profezie avevano offeso gli dei. Le Arpie, sfruttando la loro capacità di volare, gli rubavano continuamente il cibo prima che lui potesse prenderlo, torturandolo con la fame.
La componente culturale
C’è qualcosa che turba la coscienza collettiva nei disturbi alimentari per questa doppia natura. Al femminile, il 90% dei casi, proprio quando la società dovrebbe trovare un posto a quel fenomeno vitale incredibile che è il dischiudersi della bellezza femminile, proprio in quel momento questa si trasforma in un mostro.
Un sinistro senso di colpa si insinua nella comunità ogni volta che una ragazza si spegne in un letto d’ospedale con le flebo attaccate. In Italia i disturbi alimentari sono la seconda causa di morte tra gli adolescenti, preceduti solo dagli incidenti stradali. Dunque, per quante ragioni individuali o familiari si possano trovare dietro questo progressivo annullamento di sé, c’è sempre anche una qualche ragione che sorpassa tali dimensioni. E’ evidente, per il fatto che i disturbi alimentari sono propri solo di alcune società moderne e del tutto sconosciuti in altri tipi di culture di convivenza. E’ evidente, per il fatto che i disturbi alimentari sono strettamente connessi ad alcuni fattori tipici di queste società che vanno a malversare quel ricco e complesso fenomeno culturale umano che consiste nel consumare il cibo insieme alle persone vicine come rituale di appartenenza e riconoscimento. Citiamone solo alcuni:
L’enigma della doppiezza
Una Arpia quindi, che si pone davanti all’uomo come un enigma.
Cosa può fare lo psicologo o lo psichiatra davanti alla metà animale della sua natura ? alla metà collettiva e culturale della sua psicopatologia ?
Infatti, anche quando in psicoterapia si cerca di approfondire il modo personale con cui si declina il disturbo, si finisce inevitabilmente per sbattere contro queste immagini dominanti della cultura contemporanea. Nel loro insieme, formano una sorta di manuale di istruzioni dove sono pedissequamente indicati i criteri minimi necessari per poter stare al mondo nella società contemporanea senza essere inghiottiti nel nulla amorfo della medietà o della mediocrità.
Medio infatti richiama mediocre, il quale richiama nullità, la quale richiama fallimento, il quale richiama suicidio. Il quale suicidio non deve per forza coincidere con un atto consapevolmente definito ma più spesso diventa l’esito simbolico ma concreto di un graduale percorso di esposizione a un crescente rischio di vita. Proprio come per le morti per anoressia.
E’ come essere risucchiati dall’uno all’altro di questi termini in un immenso vortice marino tipo quello descritto nel famoso racconto di Edgar Allan Poe “Una discesa nel Maelström”. Una volta presi nel vortice delle correnti marine delle proprie forze inconsce, l’abisso che si spalanca è tanto spaventoso quanto irresistibile. Talvolta si è tentati di cedere a una forza percepita così strapotente, piuttosto che faticare e lottare per opporsi.
Blue Whale Challenge
Non è un caso che la “Sfida della Balena Azzurra” meglio conosciuta come Blue Whale Challenge, diventata famosa circa otto anni fa, consisteva nel fare leva sulla paura della mediocrità ponendo la vittima, in genere ragazzi dopo la pubertà, di fronte a delle prove di coraggio che però, nel loro insieme, assumevano una valenza fortemente autodistruttiva. In questo noto fenomeno di Cyberbullismo, che passava attraverso i social, il ragazzo, se vuole superare la prova proposta nella Challenge per cercare diventare più popolare nel circuito in cui si è trovato a incagliarsi, deve dare prova di coraggio osando andare contro se stesso. Ovvero, accettando di aggredire la propria integrità fisica e psichica contro il suo stesso istinto di conservazione.
Si parte prima da piccoli gesti i cui danni sono facilmente rimediabili. Ma progressivamente si alza la posta di queste prove in una successione crescente di questi danni perché la Blue Whale è una discesa nel Maelström che prevede numerose tappe.
Molte Challenge pericolose hanno una struttura simile a un rito di iniziazione: per “dimostrare” il proprio valore, bisogna superare prove sempre più estreme. Anche l’anoressia funziona con una logica simile: molte ragazze vedono il dimagrimento come un cammino da completare, una prova di forza e disciplina. L’obiettivo di diventare sempre più magre è vissuto come una sfida con se stesse e con le altre.
Così il ragazzo impara progressivamente a non avere paura nell’attaccare quella grande entità interiorizzata che si chiama “Cura di sé” e che si è strutturata intorno all’istinto di conservazione biologico arricchendolo e sviluppandolo.
Una funzione psichica che possiamo immaginare come una imponente struttura formatasi dai sedimenti di tutti i micro e macro atti di cura ricevuti dalle figure di accudimento vicine e lontane durante il periodo infantile. Ognuno di questi gesti aveva un significato simbolico: la tua vita è importante per me e per gli altri che ti sono intorno e per tutto il genere umano. Tu sei importante.
Rinascere al mondo
Il problema è che la pubertà è una sorta di seconda nascita. Un parto ancora più periglioso di quello biologico, almeno così sembra essere diventato oggi.
Se la mortalità infantile alla nascita è tanto diminuita questo dipende dal fatto che gli uomini hanno imparato a circondare il bambino di quegli atti di cura medici e umani che hanno successo nel custodire la vita. Non è ancora così per la pubertà.
In questo periodo di vita, il ragazzo deve nascere a un mondo sconosciuto con il compito di dover anche tagliare il cordone ombelicale con tutte le figure di cura precedenti se vuole emanciparsi dai richiami dell’infanzia.
Come si presenta questo mondo ? A giudicare dall’aumento dei livelli di ansia che si misurano in questo periodo dell’esistenza umana, si presenta come se, d’improvviso, si fosse posata un’arpia sul davanzale della propria finestra.
Per non rischiare di essere rifiutati dalla loro nuova famiglia, i coetanei, ovvero le figure da cui unicamente si possono accettare i riconoscimenti affettivi, alcuni ragazzi si spaventano della loro fame di approvazione. Devono nascondere la loro vulnerabilità, il loro bisogno di conferme, di affetto e di riconoscimento. Per farlo, si rifugiano in forme di autocontrollo parossistiche che gradualmente trasformano in sfida onnipotente alle loro proprie debolezze.
La Sarzanini scrive:
“La difficoltà in più è che il disturbo alimentare ti dà una forza inaspettata. All’esterno sembri fragilissimo, ma dentro ti fa trovare un vigore pazzesco. È la forza del controllo maniacale del tuo corpo»
E’ quindi questa la storia di tutte le forme di autolesionismo, non solo i disturbi alimentari. Il tagliarsi, ovvero sfidare il dolore fisico, si accompagna a paradossali sensazioni di euforia per l’illusione di onnipotenza nello scoprire dentro di sé la forza paradossale di saper andare contro l’istinto di conservazione. Addirittura anche le tossicodipendenze, dove accade che l’eccesso di gratificazione, dietro la maschera della ricerca del piacere, è nascostamente al servizio della negazione dei propri bisogni affettivi.
Si compie qui la trasformazione della bellissima donna alata che potrebbe rappresentare lo sbocciare dell’adolescente, in un mostro che affama il bisogno più intimo, torturando il ragazzo.
Un istinto di morte
Lo stesso principio di funzionamento che nella Blue Whale Challenge porta gradualmente il ragazzo a destrutturare l’istanza psichica “Cura di Sè” porta anche l’anoressica a sfidare lo scheletro che sostiene questa istanza, l’istinto di conservazione, di cui la fame è il difensore primo e più importante. Fino a ridursi essa stessa a scheletro. Con la differenza che se nella Blue Whale chi fa percorrere tutte le tappe dalla medietà al suicidio è l’influenza manipolativa di uno o più personaggi esterni, nel disturbo alimentare è un personaggio generato dal proprio mondo interno, l’Arpia. Ma è un personaggio che riposa silente in ogni essere umano e che può svegliarsi nei momenti di crisi. Potremmo dire che coincide con l’istinto di morte? Concetto complesso e spesso frainteso, che non mancheremo di trattare in futuro.
Quello che gli umani cominciano a capire è che il fatto che l’Arpia si risvegli, ovvero che si perda l’equilibrio tra istinto di vita e di morte, è in rapporto anche con la pressione verso alcuni modelli ideali tipici delle culture promosse dalle società più sviluppate.
Quello che non hanno ancora capito è come questo succede e cosa occorre fare per intervenire sulla natura collettiva e culturale del problema, che può trasformare un angelo uscito dall’infanzia nel corpo rapace di un’arpia.
Ma si stanno applicando.
Buon Universo a Tutti !
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Written by: mind_master
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